Il ciclo di webinar Cambiamo discorso—Contributi per il contrasto agli stereotipi di genere, organizzato da Reti Culturali, ha come filo conduttore, in questo anno 2024, il tema della toponomastica femminile, come uno degli ambiti più significativi per far emergere la presenza e la rilevanza delle donne sia negli spazi domestici — della casa e dei lavori di cura tradizionalmente femminili— sia nei luoghi e nei tempi in cui hanno operato come letterate, scienziate, artiste, politiche, sindacaliste, partigiane, resistenti… e molto altro.

Di questo si parlerà nel prossimo incontro online il 21 marzo 2024, con le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile, Maria Pia Ercolini e Barbara Belotti, a cui ora rivolgiamo alcune domande, per conoscere quel loro percorso personale e professionale che le ha condotte a occuparsi di questa tematica in particolare, di cui sentiremo illustrare tutte le caratteristiche nel webinar.
Sappiamo che provenite dal mondo della scuola, quali studi medi e universitari avete percorso, e in quali scuole avete lavorato, prima di giungere all’idea di fondare l’associazione Tf?
MPE — Non è stato semplice scegliere la facoltà universitaria dopo il diploma scientifico: avevo chiaro in mente di voler insegnare, ma cosa? Mi piaceva scrivere e divoravo romanzi, amavo molto la lingua francese, ma ero anche attratta dalla precisione matematica e dal calcolo statistico.
Bloccata tra mille dubbi, mi sono iscritta a lettere quasi per caso, seguendo una mia cara amica. Ho riscoperto la storia, che avevo detestato a scuola, e il fascino della geografia, accantonata da anni, ma non ho fatto in tempo ad assaporare l’atmosfera universitaria perché di lì a pochi mesi mi sono ritrovata in banca, ancora una volta quasi per caso. Ci sono voluti altri cinque anni per prendere in mano la mia vita: lasciare la banca, laurearmi, viaggiare e decidere che avrei insegnato Geografia!
A Roma non era facile avere supplenze lunghe e così mi sono trasferita in Veneto: è lì che dopo anni di precariato ho vinto il concorso e avuto il ruolo nella scuola superiore. Ho insegnato in istituti professionali e tecnici della provincia di Vicenza e devo dire che è stata una bellissima esperienza: scuole ordinate, pulitissime e ben organizzate, classi tranquille e motivate, colleghe sempre pronte a lavorare su progetti interdisciplinari. Quando sono tornata a Roma ho trovato una realtà scolastica molto diversa, direi trasandata, caotica e decisamente meno collaborativa; la didattica sembrava un fatto individuale e la programmazione collegiale era considerata un’eccezione e non la prassi. A mio parere, invece, proprio a Roma, dove il contesto metropolitano rendeva ragazze e ragazzi stressati, conflittuali, problematici, era necessario creare spazi accoglienti, dare loro regole chiare e introdurre strategie didattiche innovative. Per fortuna, seppure sporadicamente, anche qui ho incontrato qualche docente e dirigente speciale, con cui condividere l’entusiasmo e andare oltre i contenuti disciplinari. Barbara certamente lo è stata e abbiamo visto risultati molto positivi nelle classi. Non a caso abbiamo poi fondato insieme Toponomastica femminile.
BB — Ho frequentato il liceo classico e poi la facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza di Roma. Non avevo molte idee chiare quando ho lasciato la scuola e sono giunta all’Università, la facoltà di Lettere è stata inizialmente un ripiego perché l’unica cosa che sapevo era che non mi sentivo pronta per gli studi scientifici, pur avendo un istintivo interesse per la chimica e la biologia. Ho pensato che affrontare quelle materie sarebbe magari diventata una croce personale, un difficile percorso. In quella grande confusione ho scoperto che nella facoltà di Lettere esisteva un dipartimento di Storia dell’Arte e la possibilità di fare un corso di studi specifico. E così ho cominciato.
La mia carriera di insegnante è arrivata per caso, non era nei miei desideri entrare nella scuola ma una volta cominciato, il lavoro di docente mi ha coinvolto. Dopo qualche anno di precariato, ho lavorato per molto tempo in una scuola della periferia romana. Una realtà complessa però estremamente stimolante per le sfide che si presentavano. Grande dispersione scolastica tra gli/le studenti, grande disagio sociale, pochi strumenti culturali a disposizione all’interno delle famiglie che, prese dai mille problemi quotidiani, non sempre erano presenti e attente alle dinamiche dei/delle figli/e adolescenti. Lo ricordo però come un periodo denso di stimoli per me docente, pieno di incognite e di riflessioni, un periodo personalmente arricchente dal punto di vista professionale e personale. Diciamo che il mio ruolo di insegnante trovava molte conferme, lì avvertivo di essere utile e di dover svolgere una funzione importante. Negli ultimi anni, cambiando scuola, ho lavorato in un quartiere diametralmente opposto, centrale e non più periferico, con famiglie molto presenti ma attente più alla votazione che alle dinamiche complesse della crescita umana e culturale di figlie e figli. In quel contesto il ruolo di insegnante mi è apparso via via meno significativo, soprattutto perché contemporaneamente era cresciuto il lavoro burocratico dell’insegnante che in molti casi ho sentito invadente rispetto a tutto il resto.
Prima di questa esperienza associativa, avrete sicuramente attuato azioni concrete nelle politiche di genere — che vi hanno poi spinto ad agire in modo diverso, seppur sulla stessa linea — ce ne volete illustrare alcune?
MPE — Forse l’azione più incisiva per l’empowerment delle ragazze con cui ho avuto a che fare è stata proprio quella che appare meno concreta: portare ogni giorno in classe tutta me stessa e la mia determinazione femminista, raccontare i tanti viaggi in solitaria scevra da paure infondate, esprimere continuamente la volontà di autodeterminazione. Insomma, uno stillicidio utile a mettere in discussione i canoni, a non lasciarsi intrappolare nei cliché stereotipati e a trovare fiducia in sé stesse.
Ho poi scritto testi su percorsi di genere a Roma e condotto le classi alla scoperta delle tracce femminili. Nel 2007 è arrivato il primo bando pubblico sulla didattica di genere, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e da allora ho sempre lavorato su progetti veri e propri. Il primo si chiamava Sui Generis: ha portato in due Istituti professionali della periferia romana e nelle biblioteche comunali il pensiero maschile e femminile in aree tematiche diverse: dalla pedagogia alla sessualità, dal linguaggio all’identità, dall’analisi dei media all’etica, dall’orientamento professionale alla riflessione sui testi scolastici. Durante la pausa estiva, insegnanti d’ambo i sessi presenti alla formazione, hanno creato venti unità didattiche in ottica di genere sulle diverse discipline, affiancate da approfondimenti testuali, iconografici, bibliografici, collegamenti a siti integrativi, esercizi, indicazioni e proposte di lavoro. In quell’occasione ho avuto modo di conoscere altre docenti motivate, provenienti da tutta Italia, tra cui Danila Baldo. Questa esperienza, così articolata e coinvolgente, ha cambiato anche me.
BB — A parte la partecipazione, negli anni universitari, ai collettivi e alle riunioni femministe, il mio modo di attuare politiche di genere si è svolto nelle classi, nell’attività di insegnamento, cercando di costruire per alunne e alunni percorsi di conoscenza che contemplassero le figure femminili, i ruoli che le donne avevano avuto nei percorsi artistici oggetto di studio, operazioni non semplici perché i testi scolastici non hanno mai aiutato molto.
Però ho sempre pensato che l’attenzione verso le politiche di genere non dovesse per forza svolgersi nell’ambito del programma ministeriale previsto, ma anche sotto altre forme. Nella scuola di periferia in cui ho insegnato per molti anni, gli interventi sulle dinamiche familiari, sulla contraccezione, su comportamenti e atteggiamenti, su valori culturali stereotipati sono stati forse più frequenti di tutto il resto. Non era di mia stretta competenza, ma di certo non si poteva stare a guardare e non intervenire, non farsi coinvolgere. In quel periodo la vicinanza con altre insegnanti è stata importante, una condivisione di problemi e soluzioni che ha reso quel periodo della mia carriera molto significativo. La scuola, e ognuna di noi, aveva funzioni strategiche per alunne e alunni, per le loro famiglie. Con grande soddisfazione ricordo che, nonostante il disagio sociale e culturale diffuso, più di un ragazzo e di una ragazza sono poi riusciti a proseguire gli studi in ambito universitario, anche con successo. E valutando il loro punto di partenza, devo dire che non è stato un successo da poco.
Nel mondo della scuola che avete sperimentato, il discorso sui rapporti di genere, nei diversi aspetti culturali e sociali, è presente oppure molto secondario rispetto a molte altre tematiche?
MPE — Certamente secondario, anche se negli ultimi anni, in teoria, si sarebbero aperti, diversi spazi trasversali. Dico in teoria perché la scuola di oggi sta distruggendo l’entusiasmo e la creatività del corpo docente, soffocato da burocrazia e doveri infiniti, spesso solo formali e inutili. Il burnout riduce sia la qualità della comunicazione didattica, sia la disponibilità a partecipare a percorsi extracurricolari impegnativi.
Ne consegue che vengano coinvolte solo docenti già motivate e la gran parte del Collegio se ne disinteressi.
BB Nel mondo della scuola direi che era abbastanza secondario, per parlarne bisognava ritagliare spazi all’interno del proprio orario in classe, fare degli arditi slalom tra le varie scadenze organizzative. Però, come ho spiegato precedentemente, nella scuola si possono portare avanti discorsi sui rapporti di genere anche esulando dal proprio ambito di insegnamento.
Avete trovato maggior ascolto come docenti nella scuola o come attiviste in ambito pubblico?
MPE — Se ci riferiamo alle politiche di genere in senso lato, credo ci sia stato maggiore ascolto in ambito pubblico. Le docenti si trinceravano dietro la rigidità dei programmi ministeriali… chissà, forse qualche disagio e senso di colpa verso sé stesse. Tutto il mio lavoro si concentrava in aula, dove non mancava certamente l’attenzione, né la curiosità, ma, salvo eccezioni, difettava l’esperienza di un vissuto personale forte. Le giovani ancora non percepiscono a pieno il disagio di genere e non si rendono conto che il ruolo di principessa, ereditato dall’infanzia, le rinchiude in una gabbia d’oro. E la scuola le protegge. Qualche costrizione fa già parte della loro vita, ma si limita ad alcuni contesti familiari o a relazioni di coppia.
È quando poi si affacciano al mondo del lavoro che sperimentano sulla propria pelle discriminazioni, stereotipi, gap… Invitate a parlare in pubblico, invece, incontriamo di solito un ambiente già maturo e sensibile a queste tematiche.
Se entriamo nello specifico della toponomastica femminile la cosa è diversa perché si scende in un campo concreto e misurabile: le classi escono dai cancelli, vedono, toccano, agiscono e si appropriano di quell’esperienza, a tutte le età.
Raccogliendo le testimonianze di toponomaste che operano nella scuola d’infanzia e nella primaria mi sono trovata davanti a lavori incredibili, fortemente interattivi e condivisi con le famiglie e con le amministrazioni!
Ça va sans dire che la ricaduta di Toponomastica femminile in ambito pubblico ha superato le più rosee previsioni: da nome proprio a nome comune su tutti i giornali, da “pretesa irragionevole” espressa da alcuni sindaci a continue richieste di consulenze e interazioni da parte di un numero sempre crescente di amministrazioni comunali. E giorni fa ho trovato un’intera pagina sull’odonomastica femminile con citazione della nostra associazione e disegno di legge in un testo scolastico. L’attenzione della stampa estera, a partire dalla BBC fino ai quotidiani russi, cinesi, giapponesi…, il primo premio europeo per la società civile (CESE, 2019), le mostre itineranti nelle città di Barcellona, di Parigi, le quattro edizioni plurilingue di Calendaria, ne hanno fatto un tema internazionale.
La strategia? Non fermarsi, esserci, insistere con gentilezza e determinazione, proporre sempre nuove modalità di comunicazione, raggiungere target inusitati e credere, credere fortemente che il radicale cambiamento di mentalità passi anche e forse soprattutto da azioni simboliche e apparentemente inoffensive.
BB — Se si parla di ascolto tra colleghi e colleghe, in un ambito di programmazione didattica, direi non molto né tra gli uni né tra le altre; il discorso collegiale sui contenuti non era sempre molto ben accolto, formalmente forse si mai nella realizzazione pratica non sempre le cose funzionavano. Poi ci sono stati felici episodi, come quelli vissuti con Maria Pia Ercolini negli anni in cui siamo state colleghe nella stessa scuola, e in questo caso le ricadute positive nelle classi sono state decisamente maggiori e interessanti. Dopo la nascita di Toponomastica femminile nel 2012, parlare di cultura di genere, di figure femminili, di ruoli e condizionamenti sociali, di stereotipi ha avuto un’accelerazione. Il progetto della toponomastica è riuscito a coinvolgere molto le alunne e gli alunni, anche le loro famiglie perché la concretezza del tema toponomastico ha consentito di aprire discorsi e tematiche di genere in modo più facile. Almeno nel mio caso la partecipazione di altre/i docenti alla programmazione didattica collegiale, anche sulle tematiche toponomastiche come filo rosso di raccordo tra le varie discipline, ha funzionato meno. Di sicuro in quel periodo iniziale di Toponomastica femminile, partendo dalla scuola siamo arrivate velocemente all’ambito pubblico, trovando ascolto e interesse. Politici/che, amministratori e amministratrici, i media hanno manifestato un interesse che mi ha sorpreso enormemente e favorevolmente. Evidentemente era stato individuato un tema molto sensibile e anche di facile approccio, coinvolgente e allo stesso tempo molto concreto e percorribile.


Ringraziamo per il tempo che ci è stato dedicato e prepariamoci ad ascoltare la nascita, l’evoluzione e le prospettive future dell’associazione Toponomastica femminile.
Questo il link per effettuare la preiscrizione all’incontro online e ricevere poi le indicazioni per il collegamento: https://bit.ly/49l7YeF.
Qui si possono leggere tutte le precedenti conversazioni del ciclo.
Chi non potesse partecipare alla diretta dell’incontro online, potrà rivederlo (come tutti i precedenti) sulla pagina fb di Reti culturali.
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Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, già docente di filosofia e scienze umane, e consigliera di parità provinciale, tiene corsi di formazione, in particolare sui temi delle politiche di genere. Giornalista pubblicista, è vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile e caporedattrice della rivista online Vitamine vaganti.
